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11 settembre 1970: l’ultima intervista di Jimi Hendrix

Jimi Hendrix morì il 18 settembre del 1970. Anche lui è parte del maledetto “Club J27”.
Dopo il concerto all’isola di Wight e poco prima della sua morte, Hendrix rilasciò un’incredibile intervista a Keith Altham, al Cumberland Hotel di Londra. Nell’intervista, il chitarrista spiega i cambiamenti avvenuti nel corso della sua carriera e accenna ai suoi futuri progetti fornendo anche qualche spiegazione della sua trasformazione artistica. Ecco l’ultima intervista di Jimi Hendrix.

L’intervista di Keith Altham a Jimi Hendrix

K.A.: – Come si spiega questo Hendrix più “pacato”? -.

J.H.: – Veramente non lo so. È vero però che ci sono stati molti cambiamenti e ci scommetto che tutti ne parleranno. Per un po’ la situazione rimarrà piuttosto calma. Ho fatto qualche concerto, sì, ma in pratica me ne sono rimasto in disparte. In questo momento tutta la mia impostazione musicale è in fase di evoluzione e mi sto interessando a una musica molto più complessa -.

Con tre musicisti, come eravamo noi, la situazione stava diventando insopportabile e io volevo allargare i miei orizzonti per proseguire il cammino da quel punto di partenza. Ma ricominciare con un gruppo composto da tre elementi, trovarmi un altro bassista per rifare la solita musica assordante, questo no -.

K.A.: – Credi che questo tuo stile più “moderato” possa farti perdere parte del fascino e del mistero che ti circondano? -.

J.H.: – Poco o tanto, tutti devono affrontare delle trasformazioni, prima o poi. Si vedono in giro tanti nuovi gruppi: i Mountain, i Cactus e altri ancora, e subito si nota che un giorno i capelli si allungano, oppure si sono messi al collo più ornamenti del solito.
lo invece ho cambiato perché mi sono reso conto che stavo esagerando, sotto certi aspetti. Stavo calcando troppo il lato spettacolare per farmi ascoltare, e non so nemmeno se ho ottenuto quel risultato oppure no. Dopo un po’ mi sono accorto che tante cose non andavano per il verso giusto, allora anch’io ho cominciato a sentirmi giù, ed è per questo che mi sono tagliato i capelli e gli anelli sono scomparsi, uno a uno.

non era un trucco pubblicitario fin dall’inizio, lo spettacolo l’avevo ideato io stesso, lo dicevo: “Forse stasera faccio a pezzi una chitarra”. E gli altri: “Si, dai!”. E io: “Veramente, credete che sia proprio il caso?”. “Si, è un’idea brillante!”. E cosi mi arrabbiavo al punto tale che riuscivo a farlo. Non ci pensavo molto, non lo ritenevo un trucco pubblicitario, per me era un divertimento e basta. Non sapevo neppure se si trattasse di rabbia finché non mi hanno detto che tutta quella distruzione significava proprio lo sfogo di una violenza interiore.
Forse ognuno dovrebbe avere a disposizione una stanza dove ci si possa liberare dalle nostre inibizioni; la mia stanza era il palcoscenico -.

K.A.: – Che cosa pensi della tua recente esibizione all’isola di Wight? Ne sei soddisfatto? -.

J.H.: – In quell’occasione c’è stata un po’ di confusione, e proprio non direi che con quel concerto ho messo le basi della mia carriera futura. Tranne quando ho suonato “God Save the Queen”, allora mi sono sentito veramente contento di essere là a suonare. È difficile dire esattamente quello che farò ora. Mi piacerebbe avere un gruppo piccolo e uno grande, e forse partire in tournée con uno di loro.

Stiamo cercando di lanciare una nuova tournée in Inghilterra ma abbiamo bisogno di un altro bassista.
Billy Cox se n’è andato. Sento che forse potrei ricominciare le mie esibizioni scatenate. È difficile sapere con certezza quello che vuole la gente intorno a me di tanto in tanto, ma per il momento non sento niente di ben definito, perché in varie fasi della mia carriera ho già sentito questa incertezza. E così credo che me ne resterò in disparte a pensarci su -.

K.A.: – Credi di essere stato apprezzato per il tuo ruolo di compositore? E pensi che la tua immagine così definita abbia costituito un ostacolo? -.

J.H.: – Probabilmente è meglio così, perché sto ancora cercando di aggiustare e definire le mie composizioni. Quello che scrivo corrisponde alla mia maniera di sentire, tutto qui. In realtà non ci
lavoro sopra molto a lungo per dare alle composizioni una forma più elegante, le mie opere sono allo stato brado, per così dire.

E le parole mi sembrano così scialbe che nessuno può veramente capirle e immedesimarsi nel loro spirito. Quando suoniamo, con tutte quelle giravolte e quei colpi di scena, il pubblico vede solo quello che vedono gli occhi, e delle orecchie se ne dimentica. Sto cercando di realizzare troppe cose in una volta sola, ma fa parte della mia natura: sono fatto così. Detesto essere messo in un angolino, detesto che mi si definisca esclusivamente come chitarrista, oppure compositore, o solo ballerino -.

K.A.: – Che cosa vuoi lasciare al pubblico oltre alla musica? Ci sono riferimenti morali o politici nelle tue     canzoni? -.

J.H.: – lo vorrei semplicemente che la gente si liberasse la mente da tutte le preoccupazioni. Oggigiorno ci sono fin troppe canzoni impegnate. La musica è diventata troppo coinvolta in altre questioni. è insopportabile, e allora, quando la vita si fa troppo difficile, io sono l’elio, uno dei gas più leggeri che si conoscano -.

K.A.: – Credevi che la musica pop avrebbe cambiato il mondo o diresti piuttosto che fosse la musica ad essere un riflesso del mondo di allora? -.

J.H.: – È un riflesso. Il riflesso, secondo me, è come il blues. Ma c’è anche quest’altro tipo di musica che si sta facendo strada e non è necessariamente una musica allegra e spensierata, è qualcosa di meno impegnato, meno ideologico, eppure più carico di contenuto, di significato umano. Non è necessario cantare sempre dell’amore per essere in grado di offrire l’amore -.

K.A.: – Che cosa ti piacerebbe veder cambiare nel mondo di oggi? -.

J.H.: – Non saprei. Le strade forse, hanno bisogno di più colore. E poi tutto quello che succede dovrebbe venire a galla, per poter essere visto e apprezzato da tutti, che si tratti di una nuova idea, di una nuova invenzione, di un nuovo modo di pensare, dovrebbe uscire all’aperto. Non bisogna continuare a trascinarsi dietro le vecchie imposizioni. Per essere diverso, uno deve fare il matto.

E quelli che fanno i matti sono pieni di pregiudizi: per poter parlare con loro, bisogna parlare in un certo modo. Invece, per stare con gli altri, uno deve portare i capelli corti e mettersi la cravatta. Noi stiamo cercando di realizzare un’altra dimensione del mondo, ma secondo me uno deve cambiare se stesso per diventare un esempio vivente di quello che sta cantando. Per cambiare il mondo devi mettere in ordine le tue idee prima di ogni altra cosa -.

K.A.: – La tua musica è arrabbiata…si scaglia contro la società? -.

J.H.: – No, non è musica arrabbiata, ma se dipendesse da me non esisterebbe una società come quella che conosciamo noi. La mia musica è un certo tipo di blues, canto il blues di oggi -.

K.A.: – Hai delle precise convinzioni politiche? -.

J.H.: – Non proprio. Ero pronto a lanciarmi nella mischia, ma oggi ognuno di noi attraversa periodi di questo genere. Per me tutto sfocia nella musica. Una delle nostre canzoni si chiama “Straight Aheade” dice: “Potere alla gente, libertà agli animi, trasmettetelo a tutti, vecchi e giovani, che ce ne importa degli eroi, grandi e piccoli, questa è la voce che dilaga ovunque” -.

K.A.: – Pare che sia stato proprio tu a inventare la musica psichedelica… -.

J.H.: – …Lo scienziato pazzo! Ho riascoltato “Are You Experienced?” e ho avuto l’impressione che dovevo essere stato sotto l’effetto di qualcosa per poter cantare roba simile. Quando ho sentito il disco mi sono detto: “Accidenti, chissà dove avevo la testa quando ho detto tutte queste cose?”. Non mi pare proprio che sia quella l’invenzione della musica psichedelica, io stavo solo esprimendo gli interrogativi che sentivo dentro di me. Nel mio modo di comporre le canzoni queste domande prendono la forma di un conflitto tra la realtà e la fantasia, lo uso la fantasia per mettere in luce i diversi aspetti della realtà -.

K.A.: – Quali incisioni degli Experience sono rimasti segreti e quali verranno pubblicati? -.

J.H.: – Abbiamo un paio di brani, uno intitolato “Horizon” e l’altro “Astral Man”, che parlano di vivere in pace con se stessi e via di seguito. Questi sono pezzi psichedelici? Non so che cosa voglia dire quella parola, veramente. Vuoi dire forse che si dice una cosa ma se ne intende un’altra? Oppure che si possono ottenere tre significati diversi dalla stessa cosa? Non è quello che si dice? -.

K.A.: – Non è un termine che ha a che fare con l’LSD? -.

J.H.: – Strettamente collegato all’Lsd? Quel tipo di consapevolezza provocata dagli allucinogeni?
Si, senz’altro. Però bisogna dare al pubblico lo spunto per sognare, in modo che quando riascoltano quella musica potranno sognare di nuovo. I sogni nascono da stati d’animo mutevoli -.

K.A.: – Credi di aver guadagnato abbastanza da permetterti di non lavorare più? -.

J.H.: – Ne dubito. Perché io voglio svegliarmi la mattina e scivolare giù dal letto in una piscina e nuotare fino al tavolo della colazione, risalire per un po’ e forse prendere una spremuta d’arancia, poi tuffarmi di nuovo in piscina e nuotare fino al bagno per farmi la barba. No, non voglio vivere nel lusso. Questo è lusso? Allora forse me ne andrò a vivere sotto una tenda, in montagna, vicino a un ruscello… -.

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