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Sting: 32 anni dopo ritorna sul palco dell’Ariston al festival di Sanremo

Era il 1986 quando Sting, in occasione del 36° festival di Sanremo, si presentò nel teatro dell’Ariston. In quell’occasione, per il britannico la prestazione fu più che altro imbarazzata: siamo nei tempi in cui il playback regna sovrano, specie per gli artisti stranieri che si esibiscono nel Festival della canzone italiana.

Il leader dei Police cantò Russians, singolo estratto dal suo primo album da solista, in un Festival condotto da Loretta Goggi. Dicevamo, dunque, imbarazzo. Fu tanto per Sting che cantò molto distante dal proprio microfono, in palese playback, quasi immobilizzato per tutto il tempo della sua canzone.Passano gli anni, cambiano le persone e con esse gli eventi: cambia anche Sting e il suo approccio con il pubblico dell’Ariston di Sanremo. Il cantautore statunitense si è lasciato andare a più movimenti, sorrisi, oltre che a una brevissima intervista di Pierfrancesco Favino. Andando con ordine, è con grande commozione, quasi, che i tre conduttori del Festival annunciano la presenza del grande ospite internazionale dell’anno, passandosi la staffetta della presentazione, prima di arrivare al nome tanto atteso pronunciato proprio da Favino, con una Hunziker che si limita ad allungare le mani e a sottolineare l’intensità e l’importanza del momento.

Sting entra sul palco velocemente, nessuna parola ma non è certamente un fatto nuovo, accompagnato dalla sua chitarra e da chi con lui suona, e inizia subito il suo tributo a Zucchero (suo grande amico, lo ripete due volte) cantando una canzone in italiano. Il nostro giudizio? Sembrava un po’ Nek, volendo esagerare, in quanto a stile canoro, ma in fin dei conti si apprezza lo sforzo di un britannico che canta in italiano, badando molto (e si vede) alla lingua e compiendo una commovente dedica. Sting tiene bene, in un contesto in cui sembra essere un vero e proprio sovrano della canzone, e la sua esibizione termina con un applauso convinto del pubblico.[nextpage title=”pagina 2″]

Piccolo momento di pausa: arrivano sul palco Favino e la Hunziker, con quest’ultima che cerca in tutti i modi di rivolgersi al britannico ma viene ben presta surclassata dall’ottimo inglese di Favino, in grado di intavolare un dialogo veloce con Sting. Domanda-risposta molto rapido, giusto il tempo di organizzarsi con l’organico strumentale: il cantante ringrazia l’Italia e due amici, Nek e Zucchero.

Si passa, poi, alla canzone successiva. Già annunciata, già tutti consapevoli, la canzone è cantata in collaborazione con Shaggy (sì, proprio quello che è diventato celebre con “Boombastic”… e che c’entra con lui?): si tratta di “Don’t make me Wait”.Eppure, lo afferma lo stesso cantante, in quella apparente diversità che c’è tra i due si celano tante analogie: stesso spirito, stessi valori, stessa voglia di uguaglianza e di diritto sociale. Per Sting presentarsi sul palco insieme ad un altro artista culturalmente e musicalmente opposto a lui rappresenta un vero e proprio messaggio politico di uguaglianza e comunanza, in un tempo in cui è tutto così fazioso, diviso, di destra e di sinistra.

La formula funziona, il pubblico balla, viene spinto dalle note e dai richiami dello stesso Shaggy. Sembra tutto trasformarsi in una grande festa, dai colori vivaci e dalle tinte accese. Sting regala, a Sanremo, degli attimi di ottima musica e non si può far altro che ringraziarlo per questo. Così importante che, dopo altre esibizioni, c’è ancora chi si ricorda di lui e allora una battuta porta di nuovo in auge la sua figura, che sembra aver lasciato un segno importante nella seconda serata nel Festival della canzone.Sotto gli occhi di tutti, questi dieci minuti scarsi rappresentano un momento elevato nella serata del Festival. E allora, 32 anni dopo, anche se solo per una sera, bentornato Sting!

di Bruno Santini (Nefele)

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