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Il neonato e il futurista: i Muse dominano lo Stadio Olimpico di Roma

Superare il limite dell’impareggiabile e giungere in un ambito del tutto differente è possibile; lo è stato, ne abbiamo una prova: i Muse hanno dominato lo Stadio Olimpico di Roma attraverso un concetto – e una concezione – di concerto che inedita non è, ma che risulta essere potenziata, quasi utopica: si potrebbe tranquillamente affermare di aver vissuto, per qualche ora, in un futuro lontano 20 o 30 anni, senza farsi troppi problemi, senza cadere in un’ipocrisia dettata dall’apprezzamento o dai gusti personali. I Muse hanno offerto al pubblico romano uno spettacolo incredibile, un’esaltazione superomistica di quel che è l’arte, un qualcosa di irripetibile che sa coniugare musica, scenografia, impatto, coinvolgimento e passione. Ma procediamo per tappe, cercando di evidenziare ciò che abbiamo colto nelle diverse ore di una giornata memorabile.

Tra Leopardi e Lessing: se un concerto può diventare un concetto filosofico

Non prendiamoci in giro: non è stato il primo e non sarà l’ultimo concerto vissuto con questo spirito, con quel concetto di bellezza e di passione che sta in ore e ore di fila. Gotthold Ephraim Lessing affermava, in quella celebre sentenza che è poi diventata marchio di pubblicità e filosofie spicciole, che l’attesa del piacere è essa stessa il piacere; Leopardi, spostando il tutto su un piano differente – lo stesso che ha permesso a grammatici e storici di recargli quella denominazione di “pessimista” -, evidenziava il carattere illusorio dello stesso, affermando che un piacere presente non esiste.

Ma andiamo al sodo: dalle 8 alle 16.30 ci sono oltre otto ore di fila, a cui si aggiungono altre quattro ore di attesa prima dell’inizio del concerto. 12 ore totali di tutto: dalla noia alla stanchezza, dalle conversazioni alle amicizie improvvisate, dalla bottiglia d’acqua senza tappo da far entrare fino agli avvertimenti della sicurezza. Rinunciare a tutto ciò? Neanche per sogno: è l’evento prima dell’evento, lo spettacolo prima dello spettacolo, la filosofia su cui si fonda tutto il bello a cui si assiste; il concerto diviene la ricompensa, se vogliamo pensarla in questo modo, di un’interminabile attesa che non sfianca nessuno, ma che crea soltanto aspettative, illusioni e – gradualmente – sempre più gioia.

E allora tutto è più bello, ogni particolare è migliore (non importa quale sia la vista e quale la posizione), ogni nota è un regalo, ogni canzone è manna. Vale per ogni concerto, è valso per il concerto dei Muse a Roma: è il segreto che porta ad amare ulteriormente tutto ciò che si osserva. Ogni spettatore, dopo una tempra simile, non è il bersaglio di un assolo di chitarra o di una canzone ascoltata passivamente, è parte viva e integrante del tutto.

Il neonato e il futurista: il racconto del concerto dei Muse a Roma

Dopo la pubblicazione di Simulation Theory gran parte della critica e dei fan della band si è mossa verso un orizzonte piuttosto chiaro: i Muse non sono rock o, almeno, non lo sono più. Forse è vero, se si considera il prodotto stesso che la band offre e ha offerto attraverso il suo ultimo album in studio: il fatto che sia vero o verosimile, però, non implica che ciò sia un limite o un difetto. La dimensione che la band è riuscita, dopo anni di esperienza, a raggiungere con le ultime prestazioni non ha un genere, un’etichetta, un’appartenenza: è totale, magnifica, utopica e universale. 

Ciò porta ad un pregio che difficilmente si può vantare nella storia della musica, soprattutto contemporanea: non importa avere la stessa idea di musica, la passione sfrenata per la band o l’amore per tutte le canzoni dei Muse; si può godere a grandi livelli dello spettacolo della formazione britannica comunque, e in ogni caso.

Ed ecco il segreto del grande successo dei Muse a Roma: la formazione britannica ha saputo abbattere ogni barriera, attirando fan da ogni dove e con diverse, e talvolta antitetiche, concezioni musicali e artistiche; ha saputo vincere il limite dall’etichetta, attraverso una commistione che ha saputo accogliere brani futuristi come Propaganda e Pressure, storici e datati come Starlight e Uprising, immortali come New Born e Plug in Baby; una commistione a cui si sono aggiunti la splendida chiusura di Knights of Cydonia e il medley perfetto con Stockholm syndrome, Assassin, Reapers e The handler.

E non è finita qui: dicevamo, inizialmente, di poter parlare tranquillamente di uno spettacolo in grado di proiettare 20 o 30 anni in avanti. Uno spettacolo futurista, utopico, che spiana la strada alle moderne concezioni di concerto globale; uno spettacolo, a dirla tutta, che non ha fatto a meno di nulla: dai laser agli occhiali led, dalle ballerine agli astronauti, passando per Murph, il robot alieno che ha dominato il palco al termine del concerto. E non importa avere necessariamente Matthew Bellamy davanti ai propri occhi per tutta la durata dell’esibizione, se si può godere di tutto il resto.

Murph, robot alieno, concerto a Roma

Murph, il robot alieno dei Muse nel concerto allo Stadio Olimpico di Roma / © Paolo Bracciano

Il concerto è finito, naturalmente, con Knights of Cydonia, con quella che può definirsi, cioè, un’opera di comunità: dopo due ore intere di concerto si è consapevoli che ci si trova di fronte all’ultima canzone, e allora non si pensa più a nulla, si salta e si balla, si urlano le ultime parole e si condivide quella gioia con chiunque sia accanto, dietro o avanti. Ed è così che i Muse hanno salutato Roma: nella gioia comune, in quel sentimento di appartenenza che non ha avuto bisogno di un genere, di una canzone specifica o di un’ideologia particolare. Alla fine, solo alla fine, si può cedere alla stanchezza: ma a quel punto non è più un problema.

 

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