Il termine punk, usato per indicare un certo movimento underground della cultura giovanile, emerge negli Stati Uniti e in Inghilterra verso la metà degli anni ’70. La parola venne coniata a partire dalla musica punk rock, per indicare un genere rozzo, rumoroso, ribelle e privo di abbellimenti, caratteristico di alcuni gruppi come gli Stooges, i Ramones, i Clash o i Sex Pistols. La parola punk, inizialmente, indicava un qualcosa di poco valore. Con l’estensione del termine, poi, finì per abbracciare anche il movimento di “teppisti” che andavano in giro con creste altissime, borchie e catene. Questa subcultura si identificava in un rifiuto dei modelli precostituiti, in un’opposizione tenace all’ambiente borghese d’origine o in una critica feroce alla società. E, se pensate che il punk sia morto, allora vi sbagliate di grosso. L’ultimo in ordine cronologico a tornare sull’argomento è stato il disc jockey britannico di origini giamaicane Don Letts.
Le prime influenze musicali del musicista Don Letts
Il musicista, nato a Londra il 10 gennaio del 1956, ha iniziato ad avvicinarsi al mondo della musica quando era appena un ragazzino.
“Ricordo il momento esatto in cui capii che nella vita avrei fatto il musicista: avevo circa 14 o 15 anni. Sono cresciuto con Keith Moon, con Pete Townshend, mio padre adoravainvece Prince Buster, Toots e the Maytals e Jim Reeves.”
Il suo rapporto con i genitori, però, non è stato sempre tutto rose e fiori: “I primi conflitti con i miei genitori sono nati quando tornai a casa con i dreadlocks. Io stavo solo cercando di trovare la mia strada e, per me, i messaggi trasmessi da quella realtà rastafariana erano decisamente più interessanti delle cose insegnate a scuola. E, alla fine, la mia carriera è stata un po’ una delusione per i miei genitori: si erano fatti in quattro per assicurarmi una cultura e, secondo il loro punto di vista, la musica e l’arte non erano delle soluzioni valide per sopravvivere.”
Don Letts: il punk ci ha salvato dal razzismo
Don Letts ha sempre trovato un riparo nella musica e, in particolar modo, nel punk.
“Il punk era un riparo dal razzismo. Negli anni settanta l’estrema destra stava prendendo il comando, ma il punk riusciva ad unire le persone più di qualsiasi altra cosa. E, sia chiaro, il Punk non è morto. È uno spirito costante. È un attitudine. È uno stile di vita. Credo ancora fortemente nel potere della musica e della cultura e credo che possano cambiare realmente le persone.”