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Cinque dischi Rock da ascoltare prima di morire

Meravigliosamente lisergica, coinvolgente e simbiotica. Non ci stancheremo mai di dirlo, la musica collide con dei lati dello spirito fattivamente irriconoscibili. Il processo che ci porta a legare dei momenti della nostra vita con un determinato artista o un disco in particolare è, tutt’oggi, inspiegabile, trascende il fisico e ci immerge in una serie di complessi per i quali una risposta risulterebbe anche promiscua. La verità è che spesso dovremmo semplicemente lasciarci andare alle emozioni e dare agio a noi stessi di comprendere quanto, in realtà, alcune domande non abbiano bisogno di una risposta. Incontrare, ad un certo punto della propria vita, il Rock, in qualsivoglia sua sfumatura, è semplicemente un atto di pura magia. Identificarsi in un determinato contesto è, forse, uno dei primi passi nel percorso di comprensione di sé stessi.

Alcune opere rimangono impresse nel cuore di chiunque quasi automaticamente, la sinergia che si crea tra l’ascoltatore ed il disco in sé risulta, ancora una volta, semplicemente inspiegabile nella sua perfezione. L’imprescindibilità di determinati album è praticamente ineluttabile. Prima o poi alcuni artisti toccheranno la vita di chiunque si interfacci al Rock, indipendentemente dal grado di passione o immedesimazione provata nei confronti della musica in quanto prodotto culturale.

Ad oggi, sembrerebbe inimmaginabile definirsi estimatori del genere senza aver mai viaggiato attraverso l’infinità delle note di alcuni brani che appaiono incommensurabilmente meravigliosi. Siamo perfettamente consapevoli di quanto, in effetti, sia impossibile racchiudere realmente in una classifica l’importanza della musica e, in particolare, di determinati album, nella vita di ognuno di noi. Purtroppo, risultiamo orribilmente relegati dal simbolismo delle parole per esplicare a pieno quanto, in realtà, siamo grati a determinati artisti, in particolare del mondo del Rock, per essersi scontrati con le nostre esistenze, migliorando ciò che, ad oggi, auspichiamo di diventare.

5) Nirvana – Nevermind (1991)

Sembrerebbe un azzardo, la mossa di un giovane che, presumibilmente, si accosta al più mainstream dei manifesti del Rock. Nevermind dei Nirvana è, in realtà, molto di più. Nevermind rappresenta lo strazio più addolorato delle delusioni e del nichilismo che gli adolescenti degli anni ’90 sono stati costretti a sorreggere. L’album è, dal primo all’ultimo secondo, l’apoteosi della sofferenza tipica del Grunge. Lo sfogo più puro di un giovane cresciuto troppo in fretta. Fragile, travolto e desolato dall’eccessiva immensità del successo che aveva ottenuto e che l’avrebbe, irrimediabilmente, condotto al baratro. Kurt è triste, frustrato e feroce mentre colpisce violentemente la sua chitarra.

Le sue dita, come le sue corde vocali sanguinano affinché qualcuno si renda conto di quanto la vita, in realtà, calpestasse i più fragili. La mistificazione delle vicende legate alla figura di Kurt Cobain ha, purtroppo, sminuito l’opera dei Nirvana che fu, in realtà concepita con l’intento intrinseco di contrastare la mercificazione della musica stessa. Ad oggi, gli album del gruppo non sono assolutamente considerabili datati. Nonostante l’ostracismo distruttivo che aleggia intorno ai Nirvana, la loro opera trova un posto molto importante, non solo nel cuore di chi ha vissuto gli anni d’oro del Grunge, ma soprattutto, in tutti coloro che apprezzano lo spettro metafisico che si cela dietro la musica.

4) Derek & the Dominos – Layla And Other Assorted Love Songs (1970)

L’apporto emotivo con il quale Eric Clapton si immerse nell’atto compositivo dell’album è talmente fitto da risultare tangibile. Dinamico, instancabile quanto dannatamente pessimista, Clapton in quel periodo non riusciva a trovare stimoli validi per i quali perseguire i propri progetti musicali. Coi Derek And The Dominos il chitarrista percepisce un feeling completamente diverso e, travolto dai plessi emotivi con i quali si stava tormentando a causa dell’amore non corrisposto per la modella allora moglie del migliore amico George Harrison, Patty Boyde, decide di ritirarsi in Florida con la band per iniziare le sessioni d’incisione del disco.

Eric riesce a convogliare la dissolutezza distruttiva con la quale i suoi demoni interiori lo stavano logorando nelle note della sua chitarra, concedendo all’ascoltatore uno spettacolo di eclettismo musicale senza eguali. Siamo ben lontani dalla tragedia che afflisse Slowhand spingendolo ad esorcizzare i terrori che fino ad allora l’avevano attanagliato mediante il commovente capolavoro Tears In Heaven. Ma, se vogliamo, Layla And Other Assorted Love Songs, è stata una delle prime testimonianze della struggente emotività con la quale Eric Clapton affronta, da sempre, la vita.

3) King Crimson – In The Court Of The Crimson King (1969)

Lo sguardo allucinato dell’uomo schizoide sulla copertina del disco rappresenta il forte presagio, sempre più reale di perdizione nel mondo moderno. L’album è tecnicamente perfetto, a tratti commovente per quanto possa essere risultato importante nel proprio percorso. Le note di ogni traccia riecheggiano poderose nei nostri cuori e nelle nostre menti riportando alla luce memorie di un passato nostalgicamente fosco. Il mondo onirico delineato nell’intera composizione relega l’ascoltatore ad uno stato di trance nel quale, questi, viene improvvisamente trasportato al cospetto del Re Cremisi attraverso le varie fasi di cui l’opera si compone. Greg Lake urla, spasmodico in apertura. La sua voce, meticolosamente distorta, declama perfettamente la condizione di devianza nella quale l’uomo moderno verterà inesorabilmente.

I Talk To The Wind restituisce una tranquillità triste e, a tratti, irreale grazie al flauto di Ian McDonald che domina la traccia. Epitaph rappresenta uno dei punti più alti del disco. Dolente, quasi rassegnata. Esplica a pieno la tragedia con la quale viene interpretata la condizione umana del prossimo futuro. “Ho paura che domani starò piangendo”. La voce di Lake è flebile ed agonizzante mentre gli strumenti prendono il sopravvento nella stagnante Moonchild. Un ultimo passo ci separa dal labile confine tra follia e realtà annunciato centinaia di anni prima da Erasmo e riproposto coraggiosamente dai King Crimson. L’elucubrazione con la quale In The Court Of The Crimson King culmina in un tripudio di virtuosismi tipici del Progressive, ricorda ancora una volta quanto, il disco, sia fondamentale, non solo per la cultura Rock, ma soprattutto, per la storia dell’umanità.

2) Deep Purple – Made In Japan (1972)

Capolavoro indiscusso dell’Hard Rock. Con il Made In Japan, i Deep Purple raggiunsero un livello di coesione talmente alto da risultare irreplicabile perfino per loro. L’album, inciso dal vivo, ripercorre i più grandi successi rilasciati in quel periodo particolarmente florido per il gruppo. Rivisitati, migliorati e, senza ombra di dubbio, più furiosi che mai. I Deep Purple scolpirono il loro nome nell’Olimpo del Rock grazie principalmente al Made In Japan. Highway Star è superba grazie ad i virtuosismi di Jon Lord e Ritchie Blackmore. Ian Gillan è esplosivo in Child In Time, i suoi falsetti sono mozzafiato, è impossibile non rimanere pietrificati di fronte ad uno spettacolo della tecnica dal concentrato emotivo così elevato.

Smoke On The Water è, semplicemente, il brano contenente il riff più famoso della storia e, per il quale, millantare l’immensità delle gesta dei Deep Purple risulterebbe quasi prolisso. Ian Paice sfrutta The Mule per dare libero sfogo alla sua bravura. In Strange Kind Of Woman, Ian Paice, Ritchie Blackmore e Ian Gillan si lanciano in una sfida meravigliosa. Nel corso del brano, il cantante riproduce perfettamente le note toccate dalla chitarra. Lazy viene impreziosita dagli interventi di Lord e Blackmore mentre Space Truckin’ viene completamente stravolta, trasformata in una suite orchestrale dalla durata di circa 20 minuti dall’atmosfera psichedelica in cui Lord maltratta il suo organo Hammond fino alla fine dell’esibizione regalando uno spettacolo allucinante quanto sensazionale.

1) Pink Floyd – The Dark Side Of The Moon (1973)

The Dark Side Of The Moon è, sostanzialmente, un’opera inarrivabile. Descriverla nei particolari, senza esplorarne realmente le sfumature sarebbe, a dir poco, prosaico. L’album è un capolavoro sotto ogni punto di vista. Sebbene sia stato largamente criticato, mistificato e osannato in termini di vendite e, sebbene forse, il fatto che sia uno dei dischi più venduti di sempre, abbia impedito che si facesse chiarezza sulla bellezza senza tempo di cui l’opera è madida; il disco riesce a resistere egregiamente all’erosione degli anni.

L’egemonia squilibrata con la quale Roger Waters ha condotto la creazione del disco è perfettamente percepibile, come i suoi sprazzi di magniloquente lucidità. L’apporto di Alan Parsons nel progetto è fondamentale per la riuscita dell’album. L’ascoltatore è travolto dalla potenza del disco, alcune tracce come On The Run e Brain Damage lo relegano ad uno stato di ansia paranoica e costante tormento, tipiche di chi lotta costantemente coi demoni del proprio passato. Breathe, Time e The Great Gig In The Sky si librano solennemente nell’aria, assistendoci in un viaggio psico emotivo profondo quanto desolante. Mentre Us & Them rappresenta l’eloquente sconcertazione dell’uomo moderno nell’ambito sociale nel quale è immerso.

 

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