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I peggiori assoli di chitarra nella storia del Rock

Quando si parla di Rock e, in particolare, del mondo della chitarra; ciò che salta alla mente in primo luogo sono le mirabolanti testimonianze d’eclettismo di alcuni tra i capostipiti del genere. Spaccati di musica dalla carica emozionale elevatissima, capaci di incantare milioni di persone, raccogliendo sotto la propria ala protettrice gli echi di intere generazioni; rimanendo immutati innanzi all’inesorabilità del tempo.

È il caso, quindi, di citare alcuni tra i maggiori esponenti del Rock che, attraverso la propria chitarra, hanno contribuito a ridimensionare il genere, stravolgendo completamente il mondo della musica.Parliamo, ovviamente, di Jimi Hendrix, Eric Clapton, David Gilmour, tra gli altri, ma potremmo andare avanti per molto tempo, qualora scegliessimo di soffermarci sulle più brillanti gemme che il panorama socioculturale moderno abbiano mai dato alla luce.

Ma ogni idillio che si rispetti ha un rovescio della medaglia e, nel caso della musica, ciò che il lato oscuro della chitarra riserva; nel migliore dei casi finisce nell’oblio di un vergognoso dimenticatoio; altre volte viene portato alla ribalta dalle sue stesse lacune. In questa classifica, stilata dal magazine Guitar World, sono stati raccolti i dieci assoli di chitarra peggiori che la storia del Rock abbia mai visto.

10) Lenny Kravitz – American Woman (1998)

Sebbene Lenny Kravitz sia considerato un polistrumentista dalle spiccate capacità chitarristiche, rivisitare il classico del 1970 dei Guess Who, American Woman, in stile Rock Pop da classifica anni ’90, fu una scelta pessima. Rendendo un brano intramontabile, uno stucchevole prodotto da radio, Guitar World la considera una delle canzoni con le peggiori frasi di chitarra di sempre.

9) Manowar – Sting Of The Bumblebee (1988)

Kings Of Metal, l’album da cui il brano è tratto, rappresenta il punto di massima esaltazione del delirio auto celebrativo cui l’opera dei Manowar è soggetta. Il Volo del Calabrone di Korsakov si immola come base solista, primeggiante e, a tratti, megalomane sulla quale si erge la tripudiante base ritmica del brano.

8) The Rolling Stones – Ain’t Too Proud To Beg (1974)

Tratta da un album pietra miliare nella storia del Rock, Ain’t Too Proud To Beg è una interpretazione in chiave Rock N’Roll di un brano dei Temptations. Si tratta di una cover relativamente riuscita, se non fosse per un assolo dalle atmosfere apparentemente forzate che risulta superfluo ad ogni ascolto.

7) Ted Nugent – Wango Tango (1980)

Fondamentalmente, ciò che rende stucchevole e relativamente sgradevole Wango Tango di Ted Nugent è il fortissimo utilizzo degli stereotipi tipici degli anni ’80 nella sua struttura compositiva. Alla luce dei fatti, l’assolo di Wango Tango è una manifestazione di buon tecnicismo, pur non dimostrando la verve tipica di un brano capace di rimanere impresso nella mente di chi ascolta.

6) Black Flag – Thirsty And Miserable (1981)

Sebbene si tratti di una pietra miliare del Punk e, pur subendo le chiare inflessioni di alcuni tra i più grandi gruppi Rock mai esistiti, tra cui Black Sabbath e Motorhead, le parti soliste di Thirsty And Miserable risentono di alcune lacune tecniche particolarmente spiccate che inficiano sulla qualità del brano a causa della loro estesa durata.

5) The Beatles – All You Need Is Love (1967)

L’opera dei Beatles viene considerata immensa nel complesso, visto l’apporto massivo che, questa, ha avuto sul panorama musicale e sulla cultura moderna. Il plesso compositivo che ha caratterizzato la discografia dei Fab Four è straordinario, indiscutibile e perfetto; ma quando si incorre nell’analisi delle capacità tecniche individuali, ci si accorge di quanto, ognuno dei membri del gruppo, avesse approfondito in maniera piuttosto rudimentale ed approssimativa lo studio dei propri strumenti. L’estro con cui i Beatles hanno ridimensionato i paradigmi socioculturali della loro epoca li ha consacrati all’eterno, pur non dimostrandosi esente da vuoti e sbavature di matrice prettamente tecnica.

4) Cream – Falstaff Beer Radio Spot (1967)

Anche i giganti cadono e la prova Regina della veridicità del proverbio arriva proprio dai Cream, la cui opera si caratterizza, da sempre, per l’eclettismo delle chitarre del mitico Eric Clapton. Nel 1967, i Cream diedero voce, testi e musica allo spot radiofonico della birra Falstaff, costruendo un Jingle nel quale è possibile ascoltare quelli che, apparentemente, potrebbero sembrare alcuni dei loro più grandi successi rivisitati per tessere le lodi della bevanda alcolica a base di luppolo. Il risultato, è stato, nel complesso, pessimo; per quanto relativamente comico, visto il contributo inimmaginabile che i Cream hanno avuto sul panorama musicale moderno.

3) Carlos Santana – The Game Of Love (2002)

Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio dei 2000, il Dio della sei corde, Carlos Santana, ha concesso un numero molto consistenze di collaborazioni per riportare la sua carriera in auge, concedendosi agli artisti di punta della scena pop di quel decennio. La mossa non è mai stata vista di buon occhio dagli addetti ai lavori; è forse per questo che Guitar World ha scelto di inserire The Game Of Love che, fondamentalmente, è un buon brano per il suo genere d’appartenenza in lista.

2) Blue Cheer – Summertime Blues (1968)

Summertime Blues proviene dall’esplosivo album di debutto dei Blue Cheer, Vincebus Eruptum del 1968. Il disco rappresenta un capolavoro dell’Hard Rock che ha contribuito all’affermazione del genere. Riff potenti che si scagliano contro acuti feroci, la rendono una manifestazione perfetta del genere. Gli assoli contenuti del brano, forse troppo esasperati, gli fanno perdere colpi; pur tuttavia, ci troviamo di fronte ad una pietra miliare dello sperimentalismo dal quale, successivamente, sono derivate le più moderne accezioni dell’Hard Rock.

1) Poison – Guitar Solo (1991)

La peggior manifestazione chitarristica secondo Guitar World. I Poison forniscono la loro, personale, definizione di assolo di chitarra attraverso una composizione capace di estendersi dai 6 agli 11 minuti, nel corso dei quali, la chitarra di C.C. Deville, attraversa diversi generi. Dall’esasperatissimo Shred patinato tipico degli eighties, portato in alto dalla sei corde di Eddie Van Halen, ricco di tapping, armonici e distorsione, ad una feroce raffica di note in plettrata alternata che esplodono prepotentemente sul tappeto melodico di un pianoforte che, pur provando a prendere le distanze dal delirio dei virtuosismi di Deville, ne rimane irrimediabilmente soggiogato.

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